Capire le motivazioni che hanno portato alla scelta di questo o
quell’argomento di dissertazione è un processo molto complesso ma interessante,
che deve tener conto non solamente di motivazioni “esogene” (il tempo, la
storia, la “tendenza” dell’architettura contemporanea all’autore) ma, e
soprattutto, “endogene”, provenienti dalla individualità del candidato, dal suo
imprinting e da come i suoi interessi, in quel preciso momento storico, siano
confluiti nel prodotto finale. Proprio l’inquadramento temporale di un lavoro
di tesi dottorale consente di non cadere nell’errore di ritenere quest’ultima
apice di una carriera di ricerca, ma come uno dei tanti tasselli che compongo
un percorso, a volte frammentario, dai risvolti imprevisti e che, spesso, si
rivela muoversi verso posizioni differenti da quelle originarie. Il Dottorato
va quindi visto, nonostante le contraddizioni di un sistema come quello
italiano, quale trampolino di lancio verso obiettivi futuri e non, come
purtroppo avviene, percorso destinato all’autoconclusione.
Utilizzando questa differente lente, si riesce a cogliere più
nitidamente, l’importanza di ogni singola tesi in un mosaico generale e
sviluppare una curiosità verso l’autore, non più semplice nome su una copertina
ma parte di un fluire storico di eventi e dinamiche.
Le
dissertazioni da me scelte per questa analisi hanno seguito, quindi, due differenti istanze: da una parte, la
necessità di trovare un filo rosso che le legasse ai miei interessi di ricerca
e, dall’altra, la curiosità
(specialmente in uno dei due casi) verso la personalità di un autore,
prematuramente scomparso, ma che sembra aver lasciato un segno forte in coloro
che lo hanno conosciuto, in egual modo colleghi e studenti. Nello specifico i
lavori da me selezionati sono:
· Garofalo Francesco, (1990) L’abaco semplificato delle regole e il confronto con la realtà
dell’architettura. Gli scritti e i progetti teorici di Adalberto Libera.
(II Ciclo: 1986-1989).
Tesi
appartenente alla categoria: Metodi e
strategie compositive
· Rodorigo
Paolo, (2009) I
media di nuova generazione nel formarsi del progetto architettonico.
Cittadinanze attivate dai media digitali. (XXII Ciclo: 2006-2009) Tutor: Professor Antonino Saggio
Tesi
appartenente alla categoria: Nuova
pratiche generative dal basso
Garofalo
Francesco, (1990) L’abaco semplificato delle regole e il confronto con la realtà
dell’architettura. Gli scritti e i progetti teorici di Adalberto Libera.
Professore
Ordinario di Composizione Architettonica e Urbana a Chieti e coordinatore del
Dottorato di Ricerca in Architettura presso lo stesso ateneo, Francesco
Garofalo è stato negli anni una figura di riferimento nel panorama
architettonico italiano. Un architetto trasversale, completo, egualmente diviso
tra l’attività teorica e la riflessione sulla materia architettonica; di lui
Pippo Ciorra dice: “si è sempre battuto
con tutte le sue forze contro l’isolamento e l’arretratezza di certi aspetti
del nostro mondo architettonico, allargando il più possibile i suoi interessi
alla scena internazionale, soprattutto inglese, nordamericana, svizzera,
giapponese, ma stando bene attento a non fare di questo essere “nel mondo” una
manifestazione di provincialismo e disprezzo nei confronti del proprio paese”1.
Non stupisce, quindi, che la sua
scomparsa, nell’Agosto 2016, abbia generato un grande dolore tra i suoi
colleghi, che lo ricordano come architetto “responsabile”, attento alla valenza
sociale e politica dell’opera di architettura, e tra i suoi studenti, che lo dipingono
come docente rigoroso ma umano, propositivo verso la trasmissione del sapere e,
soprattutto, del “saper fare architettura”.
I
suoi primi passi nel mondo accademico Francesco Garofalo li aveva mossi proprio
nella nostra Università, conseguendo il titolo di dottore di ricerca con una
dissertazione sulla figura e le strategie compositive nell’opera di Adalberto
Libera.
E’ singolare, scorrendo i titoli delle
tesi finali di quegli anni, notare come ci fosse un marcato interesse verso la “grammatica
del progetto di architettura”; ci si interrogava sui concetti di “residenza”,
di “facciate” e “tecniche d’invenzione”; si prestava una forte attenzione non
solo sul prodotto finale della pratica architettonica, ma sui suoi processi,
sulla costruzione di una propria sintassi e soprattutto sulla trasmissibilità
delle metodologie. Ecco quindi che il Libera che ci presenta Garofalo è il
Libera architetto affrancato da chiavi di lettura prettamente storiografiche o
ideologiche; ciò che ne viene messo in luce sono la formazione giovanile e la maturazione
del suo progettare; il rapporto con i suoi giovani assistenti nel ruolo di
docente in varie università italiane e le insanabili fratture tra una sua
personale, e rigorosa, visione critica e un mondo in rapida evoluzione.
La
dissertazione si articola in cinque parti comprensive di una appendice:
1. La costruzione del linguaggio; 1925-1928
2. Dalla forma alla riforma; le ricerche sull’abitare
3. La trasmissione del metodo
4. Verso una “urbanistica esatta”; l’idea di città di A.
Libera
5. Appendice: antologia degli scritti di Libera
La
mia analisi si soffermerà in particolare su due di queste cinque parti (la
numero 1 e la 5) che ritengo fondamentali nella lettura critica di Garofalo e vicine
ai temi di ricerca da me affrontanti nel mio iter dottorale.
La prima è una raccolta e studio di
documenti, in particolare disegni d’archivio e scritti, con lo scopo di mettere
a nudo gli aspetti più specifici della composizione architettonica. L’autore,
in essi, rivede come in un laboratorio, la formazione di uno specifico
linguaggio architettonico di colui che viene definito un architetto “moderno ma dal cuore antico”.
Libera
è, infatti, una presenza singolare nel dibattito architettonico di quegli anni:
non parte, come i modernisti nordici, da una tabula rasa degli elementi
precedenti, da un ipotetico anno zero dell’architettura, ma si confronta con la
contraddizione di essere una personalità fortemente legata alla propria scuola
di appartenenza e, allo stesso tempo, proiettata verso l’adesione autonoma e
autodidatta a nuovi linguaggi. Garofalo mette in luce come il percorso
formativo di Libera sia sempre stato in bilico tra queste due anime; ipotesi
confermata dal corpus di disegni dove una selezione di architetture del passato
è via via affinata, compresa nella sua natura più intima e trasportata nella
contemporaneità attraverso dei loro caratteri ritenuti fondamentali, sottraendo
inoltre, i nuovi materiali da costruzione da un uso “puramente strumentale” verso uno filtrato attraverso una sensibilità
classica atta a donar loro nuovi valori. Non ci stupiamo quindi che, a schizzi raffiguranti
tipologie classiche, se ne trovino affiancati altri che identificano nuove
“tipologie” moderne come il cinema, l’albergo ed i monumenti ai caduti.
A conferma di questa costruzione del
linguaggio lo stesso tema del telaio, icona della ricerca comasco-milanese, è
da Libera affrontato con una sensibilità personale. Il telaio viene, infatti,
liberato da una progressiva astrazione “priva di peso” e legato fortemente ad
una espressione del comportamento strutturale di tipo classico dove a dominare
è il senso della gerarchia e della rastremazione in funzione di una distribuzione
dei carichi verso l’alto.
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Immagine1 |
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Un altro passaggio fondamentale è la “trasmissione del metodo” di Adalberto
Libera. L’autore riesce ad affrontare criticamente sia la metodologia d’insegnamento
che la crisi che in età avanzata l’architetto e docente si trova costretto ad
affrontare rispetto ad un mondo in costante accellerazione. La forza di questa
parte è nell’oggettività tramite cui questa analisi viene affrontata, non
solamente attraverso testimonianze grafiche di studenti di quegli anni, ma
anche, e soprattutto, grazie alle fonti dirette degli assistenti di Libera a
Roma (Manfredo Tafuri, Carlo Aymonino, Vieri Quilici).
Le informazioni dirette di questi ultimi
servono a Garofalo per veicolarci due messaggi fondamentali, uno più diretto e
uno più velato: il primo è che nel dialogo tra una nuova generazione e quella
precedente sia fondamentale un conflitto creativo, una contrapposizione critica
che dia nuova linfa ad un dibattito come quello architettonico sempre bisognoso
di nuove proposizione d’invenzione; in secondo luogo la consapevolezza che un
metodo non può essere visto come percorso concluso e autoreferenziale ma anzi,
per dimostrare la sua validità deve avere la forza di rigenerarsi completamente
di fronte alle nuove istanze della modernità.
Rodorigo
Paolo, (2009) I
media di nuova generazione nel formarsi del progetto architettonico.
Cittadinanze attivate dai media digitali.
Il
lavoro di Paolo Rodorigo si inserisce in un momento storico-critico
completamente differente, rispetto a Garofalo, nell’ambito del nostro dottorato
di ricerca: non solo per la evidente distanza cronologica tra la sua opera e
quella di Garofalo, ma soprattutto per la sua aderenza al dibattito
architettonico che si è ormai spostato in ben’altra direzione rispetto a quella
di una generazione precedente.
L’opera di architettura non è più vista
come presenza autoreferenziale nella città. Il fallimento del Movimento Moderno
e la disgregazione del mondo post-bellico hanno generato la consapevolezza del
bisogno di un nuovo tipo architettura che sia in primo luogo espressione non di
dinamiche funzionali ma di dinamiche informative; vi è il bisogno di un ritorno
ad un momento comunicativo dell’architettura, affinchè essa possa diventare
medium di un nuovo tipo di società. Secondo Rodorigo ciò è possibile grazie
all’utilizzo delle nuove potenzialità offerte dall’informatica che possono
innescare un doppio tipo di cortocircuito: da una parte trasformare
l’architettura in un nuovo mezzo di comunicazione di massa (facendone affiorare
le valenze culturali ed antropologiche tali da permetterne il confronto con altre
espressioni culturali contemporanee); dall’altro, grazie a questa
trasformazione, garantire una maggior partecipazione del cittadino al progetto,
in una visione che vuole trasmettere l’importanza di ogni singola individualità
all’allargamento della sfera pubblica, valutando forme di espressione
democratiche alternative o complementari.
La dissertazione si articola in quattro
capitoli corredati da un nota metodologica iniziale:
1. Capitolo 1. Progetto e Partecipazione politica
nell’era mediale
2. Capitolo 2. I rapporti tra architettura e media
3. Capitolo 3. Nuovi media e architettura condivisa:
basi teoriche e analisi di esperienze esistenti
4. Capitolo 4. Media interattivi e processi 2.0
nell’Informazione del progetto: l’esperienza UrbanVoids 4D Lab
Il
filo conduttore che lega i vari capitoli è la certezza che, grazie all’uso
delle nuove tecnologie, l’architettura oggi può essere catalizzatore di nuove
pratiche dal basso (bottom-up)
destinate a cambiare il volto della città contemporanea. Processi che spingano l’idea di
partecipazione, nata a cavallo degli anni Settanta, verso nuovi orizzonti di
trasversalità e inclusività.
La volontà è quella di poter ricucire
lo strappo identificato tra progetto-città-cittadino-rappresentante e, per poter
far ciò, non è possibile ricomporre il puzzle esclusivamente all’interno del
progetto solipsista dell’architetto ma considerare centrale nel fare
architettura la presenza di coinvolgimenti extra disciplinari (politici,
sociologici e antropologici).
Le pratiche partecipative nate del web
di seconda generazione (Web 2.0) consentono una bidirezionalità del processo
creativo/comunicativo, non delegando la comunità sociale alla tacita accettazione
di regole imposte dall’alto ma sviluppando una concertazione che non preveda
ovviamente risvolti puramente formali, pena la delegittimazione della figura
dell’architetto, ma una maggiore consapevolezza critica delle scelte condivise
per il progetto, ipotizzando future trasformazioni dell’intervento compatibili
con la volontà degli attori che ne usufruiranno (ne sono un esempio
associazioni come “criticalmap” e “friends of the highline” che grazie a
queste protesi digitali hanno vinto importanti battaglie altrimenti
insostenibili).
Interessanti in questa chiave sono gli
apparati progettuali che Paolo Rodorigo costruisce e che vivono di una loro
parziale autonomia rispetto alla narrazione principale; come nella più proficua
pratica web, infatti, questa opera è da considerarsi un hypertesto, dove è la
logica del “salto” a guidare il movimento del lettore; quest’ultimo può seguire
il percorso che gli è proposto dall’autore è svilupparne uno suo, letteralmente
“saltando” da un contenuto all’altro. Mi riferisco all’Allegato A che analizza
l’opera di Samuel Mockbee e di Rural Studio e l’Allegato B che analizza le
sperimentazioni all’interno del laboratorio di progettazione IV D del professor
Antonino Saggio a “Sapienza, Università di Roma”.
Ad una prima riflessione il lettore
disattento potrà pensare che è impossibile mettere a confronto due esperienze
così tra loro differenti. In realtà vi sono più punti in comune di quelli che
si possono immaginare; è vero che a cambiare sono la dimensione sociale, fisico
e storico delle aree preposte all’intervento ma condivisibili sono le strategie
alla base che muovono queste operazioni. Tramite un rapporto diretto con la
cittadinanza coinvolta vi è una negoziazione delle aree progettuali, un
confronto sulle necessità della collettività e le aspirazioni dell’architetto
nel proprio intervento; vi è una comunanza d’intenti che è possibile solo
grazie alla reciproca comunicazione e alla possibilità dell’architettura di
farsi medium di queste nuove sostanze.
Certo, Roma e il Mississippi,
appartengono a due geografie tra loro completamente differenti, ma il risultato
è lo stesso: disegnare nuovi frammenti di città dove sia la vita a permearne la
spazialità e non la logica del profitto o dell’autocelebrazione.
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Tra
Grammatica del Gioco e Sceneggiatura delle scelte concrete
L’analisi
di due tesi così differenti tra loro, sia per categoria di appartenenza, sia
per la distanza cronologica che inevitabilmente le divide, ha dimostrato come
la struttura del corpus teorico e operativo che compone la storia di un
dottorato di ricerca è al suo interno ricco e composto da molteplici
differenze.
Sarebbe però una visione incompleta
quella di omettere la contestualizzazione, nel loro momento storico di
appartenenza, di questi lavori, dato che, una buona parte dei motivi
strutturanti la loro composizione deriva dall’analisi delle istanze storiche
proprie di quel tempo. Se per Francesco Garofalo e la neonata scuola dottorale
di Roma era imprescindibile confrontarsi con la didattica e il suo metodo di
trasmissione, nell’ottica di un ciclo formativo che potesse formare la classe
docente del futuro, per Paolo Rodorigo, appartenente ad un ciclo quasi a
cavallo tra il secolo vecchio e il nuovo, era impossibile evitare una dialettica con le commistioni tra Informatica
e Architettura che dominavano (e in parte ancora oggi caratterizzano) il
dibattito architettonico di quasi dieci anni fa. Naturalmente non tutte le tesi
dei vari cicli dimostrano una tale sensibilità e volontà di immettersi in un
dibattito attuale e stratificato, e anzi, molte volte viene preferito il
ricorso a tematiche già esplorate e rassicuranti che seppur soddisfacenti in
termini di ricerca e metodologia dimenticano l’ineludibile, a detta di chi
scrive, necessità di interfacciarsi con le sollecitazioni storiche e ambientali
in cui si lavora e si fa ricerca.
Oggi, chi si documenta sulle
discussioni all’interno della dimensione italiana, non può esimersi dal
constatare che vi è un nuovo interesse verso i temi del progetto operativo ed
in particolare della sua didattica. La scuola italiana sente la necessità di
fare in modo che alla “teoria” corrisponda una solida fase di “progetto”, che
il lavoro critico all’interno dei dottorati di ricerca non sia solo lo specchio
di una solida attitudine alla ricerca, ma di un “saper ricercare per poter fare” per ricomporre la scissione che
oggi sembra essere sempre più netta tra chi insegna e chi costruisce. In questa
chiave ho letto con grande interesse l’opera di Francesco Garofalo, architetto
sapiente e solido teorico, che attraverso i propri studi dottorali è riuscito
ad elaborare una propria metolodogia di intervento operativo ma soprattutto
intensamente trasmissibile, come hanno confermato i ricordi dei suoi studenti
che lo rammentano quale eccellente architetto ma soprattutto come straordinario
docente.
Negli ultimi due anni sono stato spinto
ad interrogarmi su cosa possa essere una “sceneggiatura
delle scelte concrete in architettura” (la dizione è per la prima volta
usata da Benevolo ma sviluppata da noi in un altro contesto) e su come la mia
dissertazione finale su “L’attività
ludica come strategia progettuale” possa trasferirsi completamente in una
“grammatica del gioco” per il progetto di architettura.
Mi convinco sempre più che la finalità
di un dottorato debba essere quella di portare il candidato allo sviluppo di
una propria metodologia progettuale e di una sintassi trasmissibile e aperta
alla modifica, grazie alla verifica sul campo, liberandosi di
un’autoreferenzialità dogmatica che ne acceca i presupposti di ricerca.
Viviamo
in un momento storico in cui, come progettisti, siamo costretti a fare i conti
con la nostra storia e gettare un nuovo sguardo critico che ci permetta di
proiettarci verso il futuro; rinunciare a questo significa dover accettare
implicitamente che siano gli storici ad occuparsi di progettazione e i
tecnologi a guidare la fase sintetica del progetto, generando un illogico
cortocircuito tra categorie proprie della disciplina e proprie di chi la
affronta. Barnham alla metà degli anni Cinquanta attaccava la scuola milanese,
e in particolare i BBPR, accusandoli di una loro “ritirata dal moderno”; e se
noi progettisti ci stessimo invece “ritirando dalla Modernità”?
NOTE
2.
Ci si riferisce alla polemica nata alla metà degli anni Cinquanta a seguito
della pubblicazione sulla rivista “Casabella-Continuità”,
dell’opera Bottega d’Erasmo (1953-1956)
ad opera di Roberto Gabetti e Aimaro Isola. A Reyer Banham rispose Ernesto Nathan Rodgers nell’editoriale
“L’evoluzione dell’architettura. Risposta
al custode dei frigidaires”.
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
1.
Studi sul telaio di Adalberto Libera. Fonte: Archivio
Libera
2. Indagine dell'obelisco come oggetto singolo e sua scomposizione
in struttura spaziale anche grazie anche al cemento armato come materiale. Fonte: Archivio Libera
3.
Rural Studio – Goat House 1997. Fonte: Ruralstudio.org
4. Mappa del progetto “UrbanVoids:
microprogetti sostenibili Lab IV”. Fonte: arc1.uniroma1.it/saggio