sabato 20 febbraio 2016

Easy Rider

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“Architecture is a ride – a physical ride and an intellectual ride” [1]

Era il 1969 e nelle sale cinematografiche usciva un film che avrebbe cambiato l’immaginario collettivo degli anni a venire: Easy Rider [2]. La pellicola, simbolo della New Hollywood, era molto più di un semplice racconto, era lo spaccato di una nuova gioventù, quella della protesta e dell’amore libero, che cercava nel viaggio e nell’immensità del paesaggio americano le chiavi per sconfiggere il senso di oppressione che il mondo degli “yes man” del capitale imponeva loro.

“Ah sì, è vero: la libertà è tutto, d'accordo... Ma parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse. [… ]ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura.” [3]

Antoine Predock è un viaggiatore, uno di quelli che la generazione di Easy Rider l’ha vissuta sulla propria pelle. È un centauro, uno che appena può salta sulla sua fedele compagna e percorre centinaia di chilometri sulle highway americane, che vive in un rapporto simbiotico col paesaggio, che ama il sapore della terra dei deserti del Sud che passa attraverso la bandana che protegge il volto, lasciando in bocca un sapore acre fatto di storia e paesaggi selvaggi.


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La sua Architettura è la reificazione di sé stesso: essa non si può comprendere da un punto di vista statico, da un piedistallo separato dalla dimensione terrestre; va esplorata, vissuta e  attraversata, ne va percepita la matericità, il rapporto intimo che intesse con il suolo. Il suo è un costruire che rifugge le mode, che definisce sequenze spaziali in orchestrazione con la psicologia del fruitore, che vuole porsi come elemento attrattore e custode di un’esperienza individuale e collettiva attivando un transfert attivo con la comunità con la quale entra in relazione.

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Poter affermare con certezza se per un giovane studente sia più formativo parlare di questa o di quella opera è un discorso che bisogna accantonare se si vuole raccontare di Antoine Predock. Il suo è un lavoro che rifugge dal raffreddarsi in uno stile o in una poetica rassicurante e facilmente replicabile, è al contrario basata su una ricerca continua, un sporcarsi le mani del maestro che fornisce soluzioni specifiche a problemi generali e non viceversa. 
Proprio per questo motivo sfogliando il catalogo delle sue opere è stato difficile sceglierne due da potervi raccontare, mi sono quindi affidato ad una folgorazione, un’affinità elettiva come direbbe Goethe, che non vuol dare nessun giudizio di valore sul resto della sua produzione ma parlare solo di un’infinitesima parte del suo operare.

Nell’American Heritage Center and Art Museum (Laramie, WY, 1986 – 1993) scopriamo una delle componenti fondamentali del suo intendere l’Architettura: Predock unisce alla sua attitudine compositiva la volontà di inserire nell’edificio surreali elementi icastici, che richiamano figure altre come la torre o la tenda (tepee) dei nativi americani. 

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L’uso di una forma conica isolata, su una vasta distesa popolata da nulla se non rari segni antropici, dà all’architettura una forte componente simbolica, magica. L’asse verticale del cono è occupato da un camino monumentale, fuori scala, che percorre l’edificio in tutta la sua altezza. Lo spazio interno è frutto di un attento lavoro di sezione, con un’illuminazione zenitale che, attraversando tutta l’altezza dell’edificio scorre lungo tutto lo scultoreo camino assiale.

L’Architetto non tratta il terreno come un vassoio illimitato su cui poggiare oggetti-scultura ma si radica ad esso, lo scava generando spazi sotterranei; ecco perché in quest’opera si vive l’idea di trovarsi rannicchiati nella madre Terra ma di voler allo stesso tempo protendersi verso il cielo.

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Il rapporto con il terreno è proprio il motivo generatore di moltissime altre sue opere tra cui l’Arizona Science Center (Phoenix, Arizona, 1990 – 1997). Qui, sebbene il complesso si trovi nelle maglie della città edificata, sembra quasi di trovarsi un territorio desertico dove suggestioni derivanti da una matrice geologica generano spunti per la risoluzione di complesse problematiche urbane. La lama rivestita in metallo è uno sfondo per le altre figure del complesso e, in certe condizioni climatiche, sembra quasi dissolversi per lasciar spazio alla forza dei singoli volumi del calcestruzzo. In un clima così torrido i vuoti tra i solidi generano dei canyon dove trovar frescura nelle stagioni calde. Gli spazi interni si articolano in una dantesca discesa e risalita verso la luce, in una Divina Commedia filtrata dall’animo americano.

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Abbiamo analizzato, a questo punto, due opere di questo geniale architetto ma vi è ancora qualcosa che non può sfuggirci, a cui dobbiamo dar voce per chiudere questo nostro errare. Sfogliando le sue opere si capisce chiaramente che vi è una sola chiave per comprendere la sua irrequietezza, la sua spinta al viaggio e all’esplorazione, e questa possibilità di lettura del suo comporre passa attraverso qualcosa di sotterraneo alla cultura del nord america: il mito della frontiera.
Predock è, infatti, un cittadino americano, discendente di coloro che, arrivando in terre così selvagge, partirono con il proprio carro alla ricerca di un proprio angolo di paradiso; ha nel sangue l’idea della scoperta e di un poter capire il mondo circostante solamente muovendosi nello spazio. È per questo motivo che trovo poetico e chiarificatore il racconto di chi, collaborando nei primi anni Ottanta con lui, lo ricorda camminare e modellare con le proprie mani la creta di un plastico ogni qual volta l’orografia del terreno stuzzicava la sua fantasia, ogni qualvolta nel suo operare prevaleva il gioco come elemento che schiudeva immaginazione viaggio e narrazione e, ogni volta che, poeticamente parlando, risaliva uno di quei gradini che lo avrebbero condotto verso il cielo.

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Bibliografia
Saggio A., Architettura e Modernità. Dal Bauhaus alla Rivoluzione Informatica, Carocci, Roma, 2010
Pierluigi F., Antoine Predock. Echi del deserto, Marsilio, Vicenza, 2008
Binder R., Spatial Dynamics, L'Arca, Milano, 1999

Note
[1] Cit. Antoine Predock durante un podcast del 2005 tenuto all'AIA (The American Institute of Architects)
[2] Easy Rider: film del 1969 diretto da Dennis Hopper
[3] Cit. Easy Rider: dialogo tra Billy e George Hanson

Raccolta Immagini
[Immagine 1] Scena tratta dal film Easy Rider (1969)
[Immagine 2] Ritratto di Antoine Predock 
[Immagine 3] Vista del Nelson Fine Art Centre (Tampa, Arizona, 1985 -1989)
[Immagine 4] Vista dell'American Heritage Center and Art Museum
[Immagine 5] Sezione dell'American Heritage Center and Art Museum. Fonte: Fiorentini 2008
[Immagine 6] Vista dell'Arizona Science Center
[Immagine 7] Schizzo dell'Arizona Science Center. A cura dell'autore
[Immagine 8] Ritratto di Antoine Predock in motocicletta (2005)



Valerio Perna

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